Iran: Cambiamento di regime o illusione strategica?/Iran: Regime Change or Strategic Illusion?/ Irán: ¿Cambio de régimen o ilusión estratégica? ITA ENG ES
Iran: Cambiamento di regime o illusione strategica?
By Paolo Falconio
Member of the Consejo Rector de Honor and lecturer at the Sociedad de Estudios Internacionales (SEI)
Il progetto israeliano di innescare un cambio di regime in Iran–condiviso anche dagli apparati statunitensi, in particolare la CIA–resta uno degli obiettivi principali di Tel Aviv,considerando che la Repubblica Islamica, in Costituzione, promuove la distruzione dello Stato di Israele. Tuttavia, per la sicurezza israeliana, potrebbe essere più efficace l’approccio di Donald Trump che ha abbandonato la retorica neocon e Dem dell’esportazione della democrazia, e concentra la pressione sulla fine del programma nucleare iraniano.
Infatti, resta incerto che tipo di governo potrebbe emergere da un eventuale collasso del regime degli Ayatollah. La realtà è che l’Iran non è un’entità omogenea: è un’antica civiltà, erede di tremila anni di storia e cultura, composta da etnie diverse (Persiani, Azeri, Curdi, Arabi) e tradizionalmente antagonista dell’Occidente. Qualunque cambiamento interno avverrebbe attraverso una traiettoria profondamente persiana, piuttosto che con un ritorno al filo-occidentalismo del tempo dello Scià – una scelta che, in fondo, ne decretò anche la fine.
A livello regionale, lo scenario è ancor più complesso: neanche gli USA desiderano che una potenza regionale egemonizzi il Medio Oriente, nemmeno Israele. E infatti sono quattro i contendenti a potenza regionale –Turchia, Israele, Iran e Arabia Saudita. Inoltre vi sono altri fattori poco noti da considerare. Un Iran troppo occidentalizzato potrebbe risultare scomodo a Israele, una diminutio della sua esclusività come bastione degli USA nella Regione.
C’è anche il fattore Turchia, spesso sottovalutato. Sebbene al momento Washington lo tolleri per esigenze tattiche, è chiaro che il Pentagono considera Ankara una presenza da contenere, e l’Iran potrebbe rivelarsi un argine più efficace dell’Arabia Saudita.
In questo contesto, il vero nodo non è tanto l’abbattimento del regime, quanto la neutralizzazione del potenziale nucleare iraniano. Il sistema degli Ayatollah è oggi più fragile sul piano interno, ma resta profondamente radicato nella società. Quanto potrebbe durare dopo una sconfitta militare di tal fatta resta un'incognita.
L' enorme dispiegamento di forze militari americane potrebbe essere l'estremo tentativo di Trump per convincere l'Iran, attraverso la diplomazia della forza, a rinunciare al nucleare e tuttavia vi sono moti fattori esogeni che potrebbero portare ad un coinvolgimento americano. Tra questi non va sottovalutato il desiderio di rivalsa per i 444 giorni nei quali il personale diplomatico americano fu tenuto in ostaggio nel 1979. Vi apparirà anacronistico, ma è un sassolino che non ha mai smesso di dolere negli apparati americani. Un coinvolgimento diretto tuttavia comporterebbe inevitabilmente un’escalation nelle tensioni con Cina e Russia, per le quali l’Iran rappresenta un punto cardine per la loro proiezione in Medio Oriente.
Infine,l’Iran,malgrado la retorica, non ha ancora chiuso lo Stretto di Hormuz né colpito siti strategici, come le centrali nucleari israeliane. Teheran sa che se non venisse a patti o se puntasse ad un conflitto di lungo periodo scatenerebbe la risposta distruttiva americana. E sebbene nessun altro al mondo,oggi, può eguagliare una simile proiezione di forza, la battaglia è esistenziale per Teheran e se non avrà alternative la combatterà anche se i pilastri dell' impero cadranno. Ma dove cadranno dovrebbe essere una preoccupazione di tutti.
Questa è gente che sta al mondo da 5.000 anni e perlomeno due domande di fondo dovrebbero sorgere.
Siamo consapevoli che siamo di fronte ad un popolo ( non solo il clero) con profonde radici culturali che non vuole essere occidente? In seconda battuta, ammettiamo che il regime degli Ayatollah cada. Ammettiamo pure che per un decennio si instauri un Presidente espressione degli Stati Uniti. Il giorno in cui l' Iran eleggerà davvero un suo Presidente che faccia gli interessi dell' Iran, cosa vi fa credere che gli interessi non saranno i medesimi di quelli attuali? In Geopolitica la geografia detta le regole.
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Iran: Regime Change or Strategic Illusion?
By Paolo Falconio
Member de Honor and lecturer at the Sociedad de Estudios Internacionales (SEI)
The Israeli project of triggering a regime change in Iran—also supported by U.S. intelligence, particularly the CIA—remains one of Tel Aviv's primary objectives, given that the Islamic Republic, by its Constitution, promotes the destruction of the State of Israel. However, from the perspective of Israeli security, Donald Trump’s approach—abandoning the neocon and Democratic rhetoric of exporting democracy and instead focusing pressure on ending Iran's nuclear program—may prove more effective.
Indeed, it remains uncertain what kind of government might emerge from a potential collapse of the Ayatollah regime. Iran is not a homogeneous entity: it is an ancient civilization with three millennia of history and culture, made up of diverse ethnic groups (Persians, Azeris, Kurds, Arabs), and traditionally antagonistic toward the West. Any internal change would likely follow a profoundly Persian trajectory, rather than a return to the pro-Western stance of the Shah's era—a choice which, in the end, also precipitated his downfall.
At the regional level, the scenario is even more complex: not even the United States wishes for any single regional power to dominate the Middle East—not even Israel. There are four contenders for regional power: Turkey, Israel, Iran, and Saudi Arabia. Additional lesser-known factors must also be considered. An overly Westernized Iran could become uncomfortable for Israel, diminishing its status as the exclusive U.S. bastion in the region.
There’s also the Turkish factor, often underestimated. Although Washington currently tolerates Ankara for tactical reasons, it's clear the Pentagon views Turkey as a presence to contain, and Iran might prove a more effective counterweight than Saudi Arabia.
In this context, the real issue is not regime collapse per se, but rather the neutralization of Iran's nuclear potential. The Ayatollah system is now internally more fragile, but remains deeply rooted in society. How long it would endure after such a military defeat remains unknown.
The massive deployment of American military forces could be Trump’s last attempt to convince Iran—through the diplomacy of force—to abandon its nuclear ambitions. However, multiple exogenous factors could still draw the U.S. into direct involvement. This would inevitably escalate tensions with China and Russia, for whom Iran remains a key foothold in their Middle East strategy.
Finally, despite the rhetoric, Iran has not yet closed the Strait of Hormuz or attacked strategic sites such as Israeli nuclear facilities. Tehran knows that if it refuses to compromise or opts for a prolonged conflict, it would trigger a devastating American response. And today, no other nation on earth can match such a projection of power.
Yet one fundamental question remains. Let’s suppose the regime of the Ayatollahs falls. Let’s also assume that, for a decade, a President aligned with the United States. On the day Iran truly elects a President who serves Iran’s own interests, what makes you believe that those interests won’t be the same as today’s? In geopolitics, geography dictates the rules.
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Irán: ¿Cambio de régimen o ilusión estratégica?
Por Paolo Falconio
Miembro del Consejo Rector de Honor y profesor en la Sociedad de Estudios Internacionales (SEI)
El proyecto israelí de provocar un cambio de régimen en Irán —también respaldado por los aparatos estadounidenses, en particular la CIA— sigue siendo uno de los principales objetivos de Tel Aviv, considerando que la República Islámica, por Constitución, promueve la destrucción del Estado de Israel. Sin embargo, para la seguridad israelí, podría ser más eficaz el enfoque de Donald Trump, que ha abandonado la retórica neoconservadora y demócrata de la exportación de la democracia, y centra la presión en el fin del programa nuclear iraní.
De hecho, sigue siendo incierto qué tipo de gobierno podría surgir de un eventual colapso del régimen de los Ayatolás. La realidad es que Irán no es una entidad homogénea: es una civilización antigua, heredera de tres mil años de historia y cultura, compuesta por diversas etnias (persas, azeríes, kurdos, árabes) y tradicionalmente antagonista de Occidente. Cualquier cambio interno ocurriría a través de una trayectoria profundamente persa, más que con un regreso al filo-occidentalismo de la época del Sha —una elección que, en el fondo, también decretó su fin.
A nivel regional, el escenario es aún más complejo: ni siquiera a EE.UU. le interesa que una potencia regional hegemonice Oriente Medio, ni siquiera a Israel. Y de hecho, son cuatro los contendientes a potencia regional: Turquía, Israel, Irán y Arabia Saudita. Además, hay otros factores poco conocidos que deben considerarse. Un Irán excesivamente occidentalizado podría resultar incómodo para Israel, una diminutio de su exclusividad como bastión de EE.UU. en la región.
Está también el factor Turquía, a menudo subestimado. Aunque en este momento Washington lo tolere por necesidades tácticas, está claro que el Pentágono considera a Ankara una presencia a contener, e Irán podría revelarse un dique más eficaz que Arabia Saudita.
En este contexto, el verdadero problema no es tanto el derrocamiento del régimen, sino la neutralización del potencial nuclear iraní. El sistema de los Ayatolás es hoy más frágil internamente, pero sigue profundamente arraigado en la sociedad. Cuánto podría durar después de una derrota militar de tal magnitud sigue siendo una incógnita.
El enorme despliegue de fuerzas militares estadounidenses podría ser el intento extremo de Trump por convencer a Irán, mediante la diplomacia de la fuerza, de renunciar a lo nuclear; y, sin embargo, existen muchos factores exógenos que podrían conducir a una implicación estadounidense. Pero eso conllevaría inevitablemente una escalada en las tensiones con China y Rusia, para quienes Irán representa un punto clave para su proyección en Oriente Medio.
Por último, Irán, a pesar de la retórica, aún no ha cerrado el Estrecho de Ormuz ni ha atacado sitios estratégicos como las centrales nucleares israelíes. Teherán sabe que si no llegara a un acuerdo o apostara por un conflicto a largo plazo, provocaría la respuesta destructiva estadounidense. Y nadie más en el mundo, hoy, puede igualar tal proyección de fuerza.
.Sin embargo, queda una pregunta fundamental. Supongamos que cae el régimen de los ayatolás. Supongamos también que durante una década se establece un Presidente alineado con los Estados Unidos. El día en que Irán elija realmente a un Presidente que defienda los intereses de Irán, ¿qué les hace pensar que esos intereses no serán los mismos de hoy? En Geopolítica es la geografía la que dicta las reglas
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